Dal Fare al Dire, No. 1, 2015, pp. 14-16.
La dipendenza e' una patologia cronica del cervello?
La tossicodipendenza non e' causata solamente dagli effetti degli stupefacenti
Introduzione
A cura di Maurizio Coletti, Associazione Itaca Italia (Roma)
Leggere gli interventi sui blog, gli articoli, i libri di Stanton Peele è sempre piuttosto stimolante. Il messaggio arriva sempre “forte e chiaro”. Si può non essere d’accordo con le sue affermazioni, ma raramente il suo punto di vista è oscuro.
Stanton è polemico, ma molto documentato e preciso. È, inoltre, capace di intervenire utilizzando al meglio i social network ed i blog. Molti dei suoi brevi articoli sono pubblicati su The Huffington di cui è blogger seguitissimo.
Uno dei suoi punti di attacco è la critica all’intervento degli AA (i dodici passi) come strumento che risolve “sempre” il problema del consumo di alcool. Ed andare contro AA negli Stati Uniti significa essere molto coraggiosi. In particolare, Peele critica fortemente l’idea dell’astinenza come unico obiettivo possibile nel campo dei consumi di alcool. Ciò lo ha portato, negli ultimi anni, a sviluppare un’attenzione molto forte per le politiche e le azioni sulla riduzione del danno, in quanto esse non si pongono la meta della riduzione a zero del consumo, ma quella di migliorare le condizioni di salute, sociali ed interpersonali del soggetto consumatore anche quando questo non si considera pronto a smettere totalmente.
Nel campo dei consumi di sostanze, Peele propone una visione interdisciplinare vera, e ricorda in continuazione che si può smettere anche senza fare ricorso ai trattamenti. La sua insistenza ruota attorno alla contrarietà verso una visione neuro scientifica quando il punto di arrivo è la semplificazione di una situazione che, invece, come sappiamo è complessa, e coinvolge diversi aspetti della vita dei consumatori.
Nell’intervento che Dal Fare al Dire ha avuto il permesso di tradurre e pubblicare, Peele afferma la limitatezza della ricerca di base su fenomeni molto più articolati di quelli relativi agli animali da laboratorio chiusi nelle loro gabbiette, ed alla mancanza di affidabilità delle conseguenze pratiche e cliniche di queste ricerche. Mettendo in discussione il mantra delle addictions come malattie croniche recidivanti.
Sarebbe importante avviare una discussione franca ed onesta su questi temi anche in Italia. Dal Fare al Dire propone fin da ora a tutti i lettori di inviare le proprie opinioni in redazione. Commenti e opinioni possono essere inviati a dalfarealdire@publieditweb.it
Dopo decenni di crescente accettazione, il concetto che la dipendenza sia una patologia medica (più esattamente, una malattia cronica del cervello) viene improvvisamente collegato con la guerra agli stupefacenti e messo in discussione. In particolare, Johann Hari ha assunto tale prospettiva nel suo libro, “Chasing The Scream: The First and Last Days of the War on Drugs”, riassunto in un recente articolo virale comparso in The Huffington Post, dal titolo “La probabile causa della dipendenza è stata scoperta, e non è ciò che credete [1].”
Hari - un noto giornalista - racconta una grande storia, o meglio una serie di storie. Una prima narrazione riguarda il lavoro sperimentale che Bruce Alexander ha condotto nei primi anni ’80 con ratti e morfina alla Simon Fraser University di Vancouver. Intitolata “Rat Park”, la serie di studi di Alexander ha evidenziato che i ratti erano inclini a diventare assuefatti alla soluzione di stupefacente solo quando si trovavano da soli in una gabbia, ma se gli veniva offerta la scelta tra la sostanza stupefacente colorata o l’acqua inerte in un ambiente allargato e stimolante in compagnia di altri topi, anche gli animali già assuefatti preferivano l’acqua.
I risultati della ricerca Rat Park hanno dimostrato che la dipendenza non è causata solamente dagli effetti degli stupefacenti, anche nei mammiferi primitivi, i cui comportamenti si ritenevano comprovare che la dipendenza sia un fenomeno biologico. Tanto più complessa sarà allora la dipendenza umana: essa riguarda le persone, le rispettive situazioni, gli stupefacenti e le altre esperienze particolarmente coinvolgenti (come il gioco d’azzardo e il sesso). Quando un individuo trova che tali esperienze siano sufficientemente gratificanti nella sua dimensione di vita, e non ha disponibili fonti alternative di gratificazione, può sviluppare una dipendenza, anche se l’arbitrio umano rimane sempre un fattore essenziale nell’equazione.
Il fatto che le persone non fossero prigioniere delle proprie dipendenze è stato dimostrato dalla guerra del Vietnam, dove oltre il 90 per cento dei soldati tossicodipendenti si sono liberati della dipendenza dall’eroina di ritorno nella madrepatria. La remissione naturale della dipendenza in circostanze normali è stata confermata attraverso indagini condotte su persone dedite a droga e alcol durante il corso della loro vita. Gene Heyman, del Boston College, ha rianalizzato i dati di tre grandi indagini condotte a livello nazionale su uso di droghe e salute mentale nel 2013. I suoi risultati hanno mostrato che le persone possono smettere in qualsiasi fase della propria dipendenza - smentendo la prognosi di una progressiva e cronica ricaduta nella dipendenza che viene comunemente accreditata.
Che i soldati sottratti al pericolo, ai disagi, e all’isolamento del Vietnam fossero in grado di cessare l’uso di stupefacenti, non appare una notizia di particolare rilievo; né che le persone possano interrompere la propria dipendenza in qualsiasi momento (si pensi ai fumatori). Nondimeno, come ho osservato nel 1975 nel libro scritto insieme con Archie Brodsky, “Love and Addiction”, il sottosegretario per la tutela della salute e dell’ambiente, nonché medico, Richard Wilbur, ha dichiarato che il Vietnam ha smentito tutto quello che aveva imparato in medicina, ovvero che le persone, una volta assunta la dipendenza, erano destinate irrevocabilmente e permanentemente ad assumere stupefacenti.
Ma la visione della dipendenza confutata dalla ricerca Rat Park e dall’esperienza del Vietnam è ancora viva e diffusa. Anzi, tale visione si è ancor più radicata dai tempi del Vietnam e di Rat Park.
L’anno scorso, un editoriale autorevole nella principale rivista scientifica mondiale, Nature, ha dichiarato in modo inequivocabile che “La tossicodipendenza è una malattia,” correlata al sistema della ricompensa, mediata a livello neurochimico, del cervello. La dichiarazione di Nature è tanto più significativa in quanto il giornale viene pubblicato nel Regno Unito, e gli europei sono meno influenzati, di regola, dal modello che riconduce la dipendenza a una malattia del cervello, un modello che viceversa è sostenuto con maggior convinzione negli Stati Uniti.
Tuttavia, insiste Nature, “l’Europa dovrebbe guardare agli Stati Uniti e alle figure ispiratrici, come Nora Volkow, direttore del National Institute on Drug Abuse. . . la quale riferisce regolarmente sulla scienza della dipendenza al Congresso degli Stati Uniti per giustificare il budget da destinare alle ricerche dell’Istituto. . . . Considerati gli strumenti tecnici attualmente disponibili per guardare in profondità all’interno del cervello, vi è una speranza realistica che gli opportuni trattamenti emergeranno dalla ricerca nei prossimi decenni”. (enfasi aggiunta).
Potrebbe sembrare sorprendente leggere che vi è solo una speranza di trovare strumenti per affrontare la dipendenza nel cervello nei prossimi decenni. In realtà, è sufficiente constatare che nessuna persona al mondo oggi è dichiarata tossicodipendente sulla base di una scansione del cervello, o che non un solo trattamento è stato sviluppato sulla stessa teoria della malattia del cervello. La ricerca in sé non mette in relazione l’attività cerebrale e il comportamento - una scansione di un consumatore di cocaina non ci rivela che lo stesso è un tossicodipendente, né che ricadrà nell’uso della cocaina, ora o in futuro.
In particolare, la scansione del cervello non ci dice nulla circa la maggioranza delle persone che cessano, riducono o lottano per cessare la dipendenza e infine hanno successo, il che è, in sostanza, l’unica cosa che vogliamo sapere. Questo processo può essere conosciuto solo soggettivamente, in termini di valori, finalità, motivazione, e opzioni della persona, come ho descritto nel mio libro del 2014 (scritto con Ilse Thompson) “Recover! Stop Thinking Like an Addict”.
Le implicazioni pratiche sono inevitabili. Possiamo scrutare tutto quello che vogliamo nel cervello, come un folle dottor Frankenstein, e non ci avvicineremo di un millimetro all’obiettivo di aiutare le persone ad affrontare la gamma di dipendenze che devono fronteggiare. Abbiamo dimostrato la futilità dell’approccio basato sul cervello considerato come entità isolata milioni di volte. Non possiamo risolvere la dipendenza magicamente, prescindendo dalla coscienza degli individui e dall’esperienza vissuta dagli stessi in ambito sociale. Al contrario, abbiamo bisogno di utilizzare tali dimensioni dell’esperienza umana per rendere le persone più felici, farle sentire parte del mondo in cui vivono, e per far sì che si rendano conto che sono in grado di controllare la propria vita.
Il XXI secolo, piuttosto che introdurre qualche cura miracolosa per la dipendenza che agisca sul cervello, non può che riaffermare questa verità fondamentale.